Il lavoro di gruppo
Il lavoro di gruppo, indipendentemente dal numero dei suoi componenti, stimola e arricchisce, sia a livello umano che professionale. Tuttavia, per lavorare bene insieme è necessario organizzarsi.
Qui nasce il problema: in che modo? L’esperienza mi ha insegnato che quando manca un criterio di base, non si arriva da nessuna parte, né pensando al breve periodo né, a maggior ragione, proiettandosi nel futuro. Per spiegare meglio il concetto, utilizzerò un esempio di Bruno Munari.
Cosa significa (davvero) lavoro di gruppo?
Tempo fa ho avuto l’occasione di leggere un opuscolo, in cui erano presenti testi di Munari dedicati all’ecologia, con un importante riferimento al lavoro di gruppo. Il principio base del suo pensiero è il seguente: fare un “lavoro di gruppo” e fare un “lavoro collettivo” non è la stessa cosa. Ecco perché:
Il lavoro collettivo è quando, per esempio, cinque persone trasportano un palo: tutte e cinque fanno la stessa azione. Il lavoro di gruppo è quando ognuno fa un lavoro diverso ma sempre per un unico scopo: chi sceglie il palo da portare, chi lo porta, chi prepara il buco per piantarlo, chi lo pianta.
– cit. Bruno Munari
Come non essere d’accordo? Da freelance ho lavorato diverse volte in team e, molto spesso, ho trovato le stesse difficoltà, dovute a una mancanza di organizzazione e suddivisione dei ruoli, per non parlare della comunicazione interna praticamente assente. Eppure, basterebbe poco per creare un gruppo di lavoro produttivo e affiatato, capace di raggiungere qualsiasi obiettivo con serenità.
Partecipare e condividere
Ogni ruolo all’interno del team dev’essere definito a priori: è buona norma creare una mappa, con nomi e riferimenti di contatto, mansioni e collegamenti. Ogni componente deve sapere a chi rivolgersi in caso di difficoltà e la risposta deve arrivare, nei limiti del possibile, in tempi brevi. Le classiche scuse “non ho avuto tempo di rispondere” o “mi sono dimenticato” sono fuori discussione.
È necessario mantenere la massima trasparenza operativa, in modo che si abbia sempre chiaro “chi fa cosa” in un determinato periodo. Non si tratta di pignoleria, ma di efficienza: sapere che il capo è fuori sede per un viaggio di lavoro, che il presidente dell’ONP sta partecipando a una conferenza stampa o che in magazzino si hanno ancora tot pezzi, sono solo alcune delle informazioni pratiche da diffondere a tutti. Non è vero che a X non interessa ciò che fa Y: in situazioni di emergenza, nel caso in cui Y sia assente, X deve avere almeno un’idea generale di cosa fare e cosa dire.
Ho visto gente rispondere al telefono: “non so dove sia il presidente, né quando tornerà”, oppure “adesso chiamo il capo per informarlo… ops, è in riunione!”, o ancora “non so dirle se abbiamo 50 matite solidali, signora… controlliamo in magazzino e la richiamiamo” (= non richiameremo mai più perché nessuno sa nulla e non esiste una persona che si occupa dello smistamento gadget).
Essere gruppo, fare gruppo
Passiamo alla “sfera umanità”: fare gruppo non significa necessariamente esserlo. Cioè, posso lavorare in team, ma sentirmi totalmente estranea ad esso. Ciò accade sia quando una nuova risorsa arriva all’interno di un gruppo già coeso, sia quando il gruppo stesso è invariato da anni, ma non si dialoga abbastanza. Si lavora meccanicamente, senza un reale coinvolgimento dei vari componenti.
Entrambe le situazioni sono piuttosto antipatiche. Ho sempre pensato che per migliorare qualsiasi lavoro di gruppo, oltre all’organizzazione generale, alle riunioni di aggiornamento periodiche, al miglioramento della comunicazione interna, fosse necessario pensare a delle esperienze di crescita e valorizzazione delle risorse umane, alimentando la solidarietà reciproca.
Sono convinta che si potrebbero ottenere grandi risultati (e belle sorprese!).
Si sa che non si può piacere a tutti, che non sempre è possibile andare d’accordo a prescindere e che, soprattutto, è difficile trovare le condizioni adatte per mettere in pratica progetti innovativi. Nonostante ciò, si può sperimentare un nuovo modo di lavorare, nel pieno rispetto della personalità di ciascuno, ma con ampi margini di miglioramento. Come? Con la progettazione partecipata.