Accogliere la fragilità, anche senza parole
Accogliere la fragilità è difficile, ma essere capaci di riconoscere un animo fragile è la competenza indispensabile che può aiutarci a costruire una società davvero inclusiva.
Negli ultimi tempi, l’attenzione è concentrata sulle differenze culturali e sull’importanza di accogliere chi proviene da un altro paese. Tutto ciò è giusto e, anzi, c’è ancora molto da fare per sensibilizzare sul tema.
Tuttavia, in questo articolo, vorrei evidenziare un’ulteriore necessità parallela: accogliere e accettare la diversità caratteriale e comunicativa (nostra rispetto agli altri e viceversa). Il mondo competitivo in cui viviamo, attento ai risultati, alla velocità, alla perfezione, è incompatibile con un approccio leggero, lento, imperfetto. C’è divergenza nel pensare, nell’agire e nell’interagire. Chi non è compreso, rimane isolato.
Per accogliere la fragilità devi osservare bene
Se stai pensando che riconoscere una persona fragile sia semplice, ti sbagli. Un animo delicato è quello che, più di altri, dimostra forza, tenacia, coraggio. Ti confonde. Fermarsi all’apparenza è il primo errore. Solo uno sguardo superficiale prosegue incurante di ciò che è lì, sotto al naso, visibile a chi ha un po’ più di tempo da dedicare. Accogliere la fragilità significa, innanzitutto, essere bravi osservatori.
Non servono tante parole, né per capire, né per offrire il proprio aiuto.
Le persone fragili non chiedono, ma sperano che qualcuno le noti, le ascolti.
Un paio di settimane fa ho visto il film “Green Book”, diretto da Peter Farrelly e vincitore di 3 Premi Oscar. Storia di un’amicizia tra due uomini molto diversi, ma capaci di andare oltre i pregiudizi e di ritrovarsi uniti dal rispetto reciproco. La battuta che mi è piaciuta di più (e ho scelto come immagine di presentazione) mi ha convinta a scrivere questo articolo.
Il mondo è pieno di gente sola che ha paura di fare il primo passo – cit. Tony Lip
Trovo sia una rappresentazione perfetta della fragilità umana, la cui caratteristica principale è la sensazione di solitudine e smarrimento che accompagna, per motivi diversi, ciascuno di noi.
Fragilità o debolezza?
Il film racconta la vera storia di Tony Lip, buttafuori che si ritrova a lavorare come autista di Don Shirley, giovane pianista afro-americano. La loro convivenza forzata “on the road”, per un lungo tour di concerti nel profondo sud degli Stati Uniti, sarà occasione per approfondire la conoscenza reciproca e scoprire pregi, difetti e visioni dell’uno e dell’altro. La citazione sopraindicata è una considerazione che Tony condivide nella speranza che l’amico si decida a cercare il fratello, di cui non ha più notizie.
Poche parole che centrano il bersaglio. La paura di essere rifiutati, o di non ricevere la risposta che aspettiamo, genera rotture insanabili, troppo spesso fondate su congetture (e tonnellate di orgoglio).
Don Shirley, infatti, nonostante l’immensa cultura, la vita piena di impegni, l’apparente freddezza, è un uomo profondamente solo e triste. Tony dimostra, con la sua schietta semplicità, una grande volontà di comunicare con il suo interlocutore: interesse che riesce a sciogliere l’iniziale diffidenza, tipica di chi teme che allentare le difese, aprirsi, significhi consentire all’altro di ferire alla prima occasione.
Attenzione, però: essere fragili non è sinonimo di debolezza.
La capacità di accogliere la fragilità altrui e, soprattutto, individuare e accogliere le nostre fragilità personali è segno di buona maturità interiore. Vuol dire accettarsi come si è, con i propri limiti, senza farne un dramma. Se in ambito lavorativo è necessario trovare un equilibrio per gestire le difficoltà senza soccombere, e quindi mostrarsi più solidi di quello che si è in realtà… nulla vieta di piangere al cinema, per esempio, se questa è la propria natura. Dovremmo essere più indulgenti, con gli altri e con noi stessi.
Tanti tipi di fragilità da abbracciare
Oltre alla fragilità caratteriale e comunicativa, che si manifesta con comportamenti schivi e riservati, un uso ponderato delle parole, una certa cautela nel donare fiducia a chi ci è di fronte, è bene menzionare anche la fragilità del corpo e del contesto. Pensiamo alle persone anziane, a chi è ammalato, a chi vive situazioni di disagio (improvvise, temporanee o destinate a protrarsi per un lungo periodo).
In casi simili, la comunicazione non verbale è una grande fonte di sollievo. Un abbraccio silenzioso, ma partecipe, è una medicina, specie quando le parole non bastano più o, purtroppo, si rivelano superflue in base alla situazione. Accogliere la fragilità, a volte, significa farsi carico di situazioni molto pesanti, che la persona interessata non può gestire da sola (pensiamo a chi non ha famiglia o punti di riferimento cari).
Da alcuni anni collaboro con la Comunità Casa del Giovane di Pavia, realtà in cui la parola “accoglienza” indica proprio questo: abbracciare l’altro con tutte le sue difficoltà, mancanze e imperfezioni.
Accogliere è una sfida: l’obiettivo è mettere da parte le proprie certezze (e anche un po’ di presunzione!) per entrare in un mondo nuovo, che non abbiamo diritto di giudicare.
“Al tuo posto avrei fatto/detto così”: ecco la frase più respingente che si possa pronunciare, specie quando non si conosce il vissuto del soggetto. Meglio chiedere, con garbo: “Perché hai fatto/detto così?”.
Domandare per capire, senza lanciare consigli: tecnica base per la facilitazione dei processi comunicativi.
⇒ Un libro sul tema: “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita”, di A. D’Avenia (Mondadori)